Stefano Davidson

Ritorna alla lista

Aggiunto il 11 feb 2012

Stefano Davidson: Sintomi cromatici e non


Ispirandomi alle parole che Giuseppe Fedeli espresse nel suo breve saggio critico sulla mostra Autoanalisi che Stefano Davidson tenne a Loro Piceno con ben 109 opere in esposizione, affermo che a mio parere la normalità apparente di questo artista è invece estrema stravaganza e quest'ultima nell'Arte è intelligenza suprema, superiore, è “ulteriorità” delle cose, del mondo, è uno sguardo “immemoriale” sui brandelli di un vissuto che in tutta la sua opera lascia tracce di un deja vù destinato a cementarsi nel nostro peregrinare nel mondo dell'Arte ancora in cerca della meta, dell'Eden, e ci regala una ragione che dà spazio all'immaginare, al sognare, al daseyn. Che altro dire se non che l'arte di Stefano Davidson altro non è che una foresta di simboli e simbologie di baudelairiana memoria, che echeggia di riminiscenze, di allegorie. Non ci si illuda allora di camminare in uno spazio familiare, perché ci troviamo nel cerebrale che sposa l'onirico, dove il razionale strizza l'occhio a deità hillmaniane, dove l'inconscio è conscio e la nevrosi è dietro l'angolo, dove la follia reclama un suo statuto, stanca di rimirare il suo sparring partner, quel nomos da cui quella normalità, della quale personalmente ne ho piene le tasche, che ci trascina nei vortici limacciosi che sfociano nella palude stagnante dell'omologazione, dell'iper-reale fine a se stesso, destituito dal senso, della coazione a ruminare bovinamente copioni spesso astratti ma altrettanto frequentemente senz'anima, freddi, laschi, asettici. La pittura di Davidson invece, a mio avviso, nella sua normale raffigurazione di corpi e cose con i tratti di cui questi corpi e cose necessitano per essere realmente se stessi, rappresenta comunque il mondo del pensiero attraverso il filtro di una combinazione di scenografia e mistero. Non è l'incomprensibilità dell'immagine o delle scelte cromatiche a dare anima alla sua opera, come spesso invece accade nell'arte dei suoi colleghi, bensì la personalissima logica che muove il suo pensiero e l'uso che egli fa anche delle parole d'accompagnamento, nei titoli e negli aforismi a ciascun opera legati, che porta l'osservatore in un mondo dove la parola è spesso luce indispensabile ad illuminare il significato dell'immagine e dove il pensiero appunto, invece dell'istinto, è un colore fondamentale quanto quelli tradizionali dell'iride. L'opera di Davidson, siffatta di parole e cromie, insegna quindi a partorire un pensiero pensante, logico, significante e performante. Tutto ciò all'esito di una, secondo me, spietata quanto redentiva indispensabile, sacramentale autoanalisi e di una auscultazione del sé dell'Es, del sé dell'altro, e del sé della cosa, quella res che è provvista comunque e sempre di anima, che vibra, implosa nell'atto incoativo e tracimante del suo farsi arte, in ombra o in luce, a colori o in bianco e nero, sensatamente rappresentata o penetrata dal non sense non fa alcuna differenza, e questa, secondo me, è l'arte di Stefano Davidson. Se però non dovesse bastare questa miscela di parole e colori, di fonemi e toni di grigio che egli combina con tanta cura, proviamo allora solo ad osservare attentamente gli sguardi dei soggetti che di volta in volta ci scrutano dalle sue tele. Attraverso quegli occhi, con un piccolo sforzo è possibile catapultarsi all'interno dell'anima creante dell'artista, quella che lo spinge a dipingere, e così a vivere, e da lì dentro con buona probabilità capiremo il tutto.
Yves Lirriverence

Realizzato da Artmajeur